Progetto ‘Nepal’

Assistenza al monitoraggio dei progetti che El Comedor porta avanti con una scuola in Nepal.

Una Focus Group Discussion sulla sicurezza con le bambine e i bambini di UPESS.

SETTORI DI INTERVENTO: Ricostruzione post-sisma, WASH (Water, Sanitation and Hygiene), Analisi dei bisogni, Monitoraggio progetti in corso

LUOGO: Uttargaya Public English Secondary School (UPESS), a Uttargaya, nel distretto di Nuwakot, regione di Trishuli, Nepal. [mappa]

PROPONENTE E PARTNER ITALIANO: Associazione El Comedor Estudiantil Giordano Liva, di Pisa.

Obiettivi

  • Assistere El Comedor nel monitoraggio del proprio progetto Health-Triss.
  • Analizzare i bisogni della comunità che vive nella scuola e intorno ad essa: studenti, insegnanti, genitori.
  • Stringere contatti con ONG nepalesi, per capire come lavorano in questi contesti di intervento e cercare possibilità di future collaborazioni.

Contesto del progetto

Il Nepal, incastrato tra l’India e la Cina, è famoso per le sue montagne: ben otto dei quattordici “ottomila” della Terra, tra cui l’Everest e l’Annapurna I, si trovano del tutto o in parte in territorio nepalese. È anche uno dei Paesi più poveri del mondo. Per esempio, usando il (discutibilissimo) indice del PIL nominale pro capite il Nepal è al 166esimo posto nel ranking fatto dal Fondo Monetario Internazionale nel 2022. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, l’Italia ha un PIL pro capite di 35,657 $, il mondo, in media, di 11,983 $, e il Nepal di soli 1,034 $ — quasi trentacinque volte più piccolo dell’Italia!

Da vari anni ormai l’associazione El Comedor Estudiantil Giordano Liva porta avanti progetti di solidarietà nella zona di Uttargaya, un villaggio del centro del Nepal coinvolto nel terremoto che nel 2015 ha squarciato il paese.

Le sue attività si sono concentrate attorno ad UPESS, o Uttargaya Public English Secondary School, una scuola di Uttargaya che ad oggi è frequentata da più di 300 bambini e bambine tra i tre e i sedici anni, oltre che da un folto gruppo di insegnanti. UPESS è stata colpita duramente dal terremoto del 2015, che ha distrutto non solo molte delle aule, ma anche l’ostello annesso alla scuola che ospitava chi viveva troppo lontano. Attraverso i vari progetti che El Comedor ha portato avanti insieme ad UPESS è stato possibile ricostruire l’ostello e la scuola, ripristinare l’offerta didattica, e più in generale migliorare le condizioni di sicurezza e benessere di ragazzi e ragazze.

Nel 2022 ISF-Pisa inizia la collaborazione con El Comedor, con l’obiettivo di offrire assistenza per il monitoraggio delle attività e portando con sé il punto di vista “isfico” sulla cooperazione internazionale (che sul sito di El Comedor è stato chiamato “decoloniale”, e noi speriamo tanto sia vero ma ci fa temere di essere anche un po’ sopravvalutati).

La collaborazione con El Comedor per ora ha portato ad un viaggio ad UPESS, nel novembre-dicembre 2022, che è andato così bene che stiamo provando ad organizzarne un altro.

Il primo viaggio a UPESS (novembre-dicembre 2022)

Partiamo per il Nepal il 22 novembre 2022. Siamo in tre: Federica e Carlo di ISF—Pisa e Chiara di El Comedor. Anche i nostri obiettivi sono tre: incontrare rappresentanti di ONG locali, per capire come lavorano e immaginare possibili collaborazioni, vedere in prima persona come procedono le attività a UPESS, e cercare informazioni che aiutino a indirizzare progetti futuri. Se possibile, inoltre, evitare di stare troppo male per via del cibo piccante (obiettivo raggiunto solo parzialmente). Durante l’andata facciamo un leggero scalo di tredici ore all’aeroporto di Doha, che nonostante i concomitanti mondiali di calcio appare deserto, tanto è enorme. C’è una monorotaia, o qualcosa di simile, che lo attraversa. È l’immagine perfetta di una tecnologia appropriata.

All’aeroporto di Malpensa, in partenza. Da sinistra a destra, Carlo e Federica di ISF-Pisa e Chiara di El Comedor.

A Kathmandu incontriamo Binod Bhatta, il monitor locale di El Comedor, che prima della partenza avevamo conosciuto solo per videochiamata. Binod è un uomo allegro, ha la parlantina piuttosto sciolta (specialmente la mattina presto), e prima di essere assunto da El Comedor aveva già lavorato per altre ONG internazionali. Dal momento del nostro arrivo, e fino alla fine del viaggio, Binod ci aiuta nell’organizzazione degli incontri con le ONG locali, nella traduzione, nella scelta dei cibi e nei trasporti. I primi giorni a Kahtmandu ci spostiamo spesso con mini-taxi, che abbondano per le strade. Binod ci fa conoscere un’app per prenotare le corse, così da evitarci i sovrapprezzi da turisti. Purtroppo quest’app richiede comunque di fare anche una telefonata di conferma al tassista, che — come scopriamo presto — in genere non parla inglese (o magari si rifiuta di farlo perché in effetti turisti lo siamo e quindi potremmo anche pagare un prezzo adeguato). Quindi nonostante tutto continuiamo a farci chiamare il taxi da qualcun altro, e quando Binod non c’è imploriamo la proprietaria dell’albergo mostrandole il telefono e assistendo ammirati alla tranquillità con cui scambia con i tassisti quelle poche parole per noi comunque irraggiungibili.

Dietro a Binod, che ha organizzato una fitta agenda di appuntamenti, e dentro le piccole Suzuki Alto che sfrecciano in mezzo a pedoni e centinaia di motorini, viaggiamo tra Kathmandu e Lalitpur, l’antica città dei re Kirati. L’aria è densa di uno smog al quale non siamo abituati. Nel giro di un paio di giorni incontriamo rappresentanti di cinque diverse NGO nepalesi: Voice of Children, attiva nella tutela dei minori, UEMS, concentrata soprattutto sulla potabilizzazione dell’acqua, NSET, che nata per contrastare il rischio sismico ha oggi l’obiettivo di costruire un Nepal più resiliente nei confronti delle catastrofi naturali, Newah, che si occupa di accesso all’acqua, e Mitra Samaj, che da anni si occupa di igiene, in particolare igiene mestruale, e di educazione alle differenze di genere. Questi sono anche i principali temi dei progetti di El Comedor a UPESS, e il nostro focus nel lavoro di monitoraggio e analisi dei bisogni che faremo alla scuola: ricostruzione post-sisma, sicurezza degli ambienti scolastici, accesso all’acqua, igiene mestruale, e WASH in generale.

Pensare a ricostruzione e accesso all’acqua mentre si è a Kathmandu è inevitabile. Tutta la città è ancora piena, a sette anni di distanza dal terremoto, di edifici crollati o semidistrutti. Mentre percorriamo le strade di Thamel, il quartiere dove si trova il nostro albergo, siamo circondati da rovine — c’è lo scheletro di un edificio proprio accanto all’hotel. È una fotografia da leggere sapendo che per di più il Nepal, dove il turismo è una delle principali fonti di reddito (se non la principale), proprio nelle aree turistiche ha concentrato i primi sforzi di ricostruzione. Oltre a questo c’è la questione dell’acqua. Uno degli avvertimenti che riceviamo prima della partenza è di assumere sempre che l’acqua non sia potabile. Anche nel nostro hotel, decisamente lussuoso per gli standard locali e per di più nella capitale, meglio usare quella in bottiglia. Negli ultimi anni il Nepal ha fatto enormi passi avanti nell’assicurare l’accesso universale all’acqua, portando per esempio la percentuale di case con adeguate fonti di approvvigionamento idrico dal 46% del 1990 al 95% del 2019. Ciononostante le contaminazioni sono frequentissime, sia alla fonte che lungo la distribuzione. Analisi fatte su campioni di acqua domestica nella Provincia 2 (ora Madhesh Province), per esempio, mostravano un incredibile 89% di contaminazione da E. coli alla fonte, che saliva al 96% per i campioni prelevati direttamente nelle case. Oltre che ricorrendo all’acqua in bottiglia, e probabilmente a una robusta dose di anticorpi, vediamo affrontare il problema delle contaminazioni anche:

Tornati nella capitale dopo la settimana a UPESS avremo modo di vedere un quarto modo di affrontare il problema: sistemi comunitari di purificazione dell’acqua, come quelli installati da UEMS a Lalitpur. Il primo che visitiamo, e forse per la sua semplicità quello più incredibile, funziona con una serie di filtri passivi a sabbia, che oltre a durare a lungo possono essere rinnovati periodicamente ad un costo molto ridotto. Vengono costruiti insieme a comitati di quartiere, che poi ne assumono la gestione vendendo l’acqua pulita a un prezzo quasi simbolico, ma che nel lungo periodo permette di coprire le spese di manutenzione.

Chiara con rappresentanti di UEMS e del comitato di quartiere davanti ad un sistema di potabilizzazione a filtri passivi.

Finito il nostro lavoro a Kathmandu prendiamo una jeep per Uttargaya, dove si trova la scuola. Uttargaya è un paese della municipalità di Bidur (tipo: “frazione di Bidur”), che a sua volta è la capitale del distretto di Nuwakot, nella provincia di Bagmati, la stessa di Kathmandu. Dalla capitale la separano circa 80 km e tre ore e mezza d’auto — le strade non sono le più accessibili. Dopo aver lasciato i bagagli al Kerung Highway Resort, il motel che sarà la nostra base nei giorni seguenti, andiamo a visitare UPESS. Veniamo accolti con una cerimonia che definire calorosa sarebbe troppo poco, e che ci ha fatto sentire anche un bel po’ sopravvalutati. Oltre ad un numero imprecisato di khada (scialli tradizionalmente usati per dare il benvenuto) e a un’enorme quantità di bellissimi fiori bianchi e arancioni di tagete, ci vengono anche impressi dei rossi e pastosi tika sulla fronte. La sera, al motel, ci assale un dubbio: il tika dobbiamo lavarlo via, o tenerlo? Non vorremmo sembrare irrispettosi, ma neanche abbandonati all’incuria. Cerchiamo di darci un contegno sciacquandoli leggermente, in modo però che ne resti traccia sulla fronte. Turisti.

Comitato di accoglienza a UPESS.

UPESS sta per Uttargaya Public English Secondary School. English, perché le lezioni si fanno in inglese: a seconda delle opinioni, un modo come un altro per rendere gli studenti più impiegabili, o un lascito abbastanza diffuso del periodo in cui l’Inghilterra occupava la vicina India e aveva grande influenza anche in Nepal. Un effetto positivo è che con molti dei ragazzi e delle ragazze possiamo parlare senza traduzione (la prima domanda che ci viene fatta da tutti i bimbi più piccoli è, a ripetizione: Messi o Ronaldo? Anche se per la nostra preparazione in merito non potevano cadere peggio con la scelta dei cooperanti, improvvisiamo una risposta).

La scuola si sviluppa su due livelli, separati da circa quattro metri di terrapieno. La maggior parte degli edifici sono stati ricostruiti dopo il terremoto, con il sostegno economico di El Comedor. Solo un paio, di cui solo uno ospita aule, sono stati risparmiati quanto bastava per essere riparati. Nei primi giorni a UPESS impieghiamo una buona parte del tempo a parlare con persone coinvolte nella ricostruzione: il capo dell’apposito comitato della scuola (che ha un comitato per ogni cosa (uno dei tanti particolari che fanno pensare inevitabilmente al blocco sovietico)), un ingegnere del comune di Bidur e uno di Sammriddha, una ditta privata che però ha supervisionato pro bono parte dei lavori e fatto i calcoli strutturali per l’ultimo blocco di aule, tutt’ora in costruzione. Il resto del tempo lo passiamo a prendere misure delle aule e dell’ostello e a fare osservazioni. Sfruttiamo anche un disto “preso in prestito” dalla sede di Strutture di Ingegneria. L’ostello, fatto da due edifici in cemento armato a due piani, più una piccola cucina ricavata nel cortile centrale e dei bagni, è stato quasi completamente ricostruito grazie al lavoro dell’associazione, ora non più attiva, Per i bambini di Satbise (che è il nome del paesino accanto). Serve principalmente per ospitare chi abita troppo lontano per farsi tutti i giorni il viaggio fino a scuola, ma nei periodi di esame è più frequentato.

Nei vari incontri fatti con El Comedor prima della partenza, uno degli argomenti venuti fuori più spesso era la possibilità che il concetto di sicurezza fosse diverso, in culture diverse. In effetti dovevamo parlarne, e dovevamo farlo proprio perché dopo il viaggio avremmo dato una nostra opinione complessiva su cosa fosse prioritario finanziare a UPESS. Non è una questione banale: ogni Stato, per esempio, sceglie con le proprie leggi quali sono i livelli di rischio accettabili quando si costruisce un edificio, si collauda un macchinario industriale o si testa la qualità dell’acqua di rubinetto. Qualsiasi atto trasformativo fatto in un contesto culturale diverso dal proprio, come nel caso di un progetto di cooperazione, richiede riflessioni di questo genere. Diamo per scontata l’assenza di qualsiasi retropensiero da colonialisti buoni (anche se è dura, è veramente dura… se non avessimo una certa fascinazione coloniale latente, forse non saremmo tanto attirati dall’idea di andare a fare viaggi di cooperazione internazionale e cercheremmo modi per massimizzare il nostro impatto semplicemente con donazioni, o facendo sensibilizzazione). La questione rimane comunque complicata e senza una risposta sempre giusta: tra le dissonanze che osserviamo lontano da casa nostra, cosa è “giusto”, tra moltissime virgolette, e cosa no? Per questo viaggio mi sembra che ci siamo dati, forse solo in parte consapevolmente, due risposte. Primo: il diritto alla salute e quello di sentirsi al sicuro sono universali, e vanno tutelati ovunque, a prescindere dal contesto; secondo, osservare è importante, ma ancora di più lo è parlare con le persone.

Nei giorni successivi organizziamo delle focus group discussion (FGD). Due sono con bambini e bambine tra gli 8 e gli 11 anni, e due con giovani tra i 12 e i 17. Alcune FGD servono per capire la percezione della sicurezza da parte di chi frequenta la scuola e l’ostello tutti i giorni (Quali sono i luoghi dove ti senti più/meno al sicuro?), altre servono per indagare la qualità dell’acqua, e una è fatta appositamente per parlare di igiene mestruale. Per capirci meglio usiamo post-it, pennarelli colorati e mappe della scuola che con inaspettate doti artistiche abbiamo riportato su cartoncino, dopo che Federica — sospettando giustamente di essere l’unica in grado di farlo — ha pazientemente assemblato le nostre misurazioni sul PC.

Un mese prima, noi di ISF non ne sapevamo granché, di focus group e analisi di contesto. Certo, erano strumenti e attività che sapevamo essere importanti, e tra l’altro già impiegati nei progetti passati dell’associazione. Ma essendo per entrambi il primo viaggio la questione rimaneva teorica. Per questo, mentre organizzavamo il viaggio, abbiamo fatto lezione da Zeudi Liew, professionista della cooperazione specializzata nella protezione dei minori, nonché esperta del Nepal per averci trascorso una fetta non trascurabile della propria vita e bella persona in generale. È stata lei a spiegarci come approcciare le tematiche più sensibili, a suggerirci di usare mappe della scuola come base per la discussione e a ricordarci di differenziare le domande a seconda dell’età. È stata sempre lei a farci anche il necessario terrorismo psicologico prima della partenza, perché fossimo consapevoli che tutti i nostri sforzi per evitare l’acqua del rubinetto sarebbero stati vanificati dal primo piatto o bicchiere non perfettamente asciutti che avremmo incontrato. Il giorno due, comunque, ci siamo lavati tutti i denti con l’acqua del rubinetto, per distrazione.

Altri incontri li facciamo con insegnanti e genitori. L’incontro coi genitori serve a capire quale sia il livello di coinvolgimento rispetto ai progetti portati avanti da El Comedor, e insieme a tutto il resto fa parte del processo, sempre necessario, di monitoraggio e verifica a posteriori delle attività che si portano avanti. Cerchiamo di non abbandonare le cose al loro corso.

Tra le abitudini che facciamo più fatica ad assimilare ci sono quelle alimentari. Se in città è comune mangiare più o meno agli stessi orari italiani, nelle zone rurali come quella di UPESS la prassi è radicalmente diversa. La colazione/pranzo, fatta verso le dieci, comprende tipicamente dhal bhat, cioè riso e zuppa di lenticchie, e per noi che siamo ospiti le sisters dell’ostello la arricchiscono di uova, patatine fritte, pickles di verdure e altro. Tutto rigorosamente poco piccante per non sconvolgere i nostri delicati e disabituati stomaci, e quindi tutto comunque molto più piccante di quanto non ci saremmo mai aspettati. Scopriamo che all’interno del nostro piccolo gruppo abbiamo gusti che coprono tutta la gamma che va da questo è il cibo più buono del mondo a mangiare pane tostato per una settimana per essere stati male il giorno uno.

Anche a UPESS condiamo i nostri pasti con una certa apprensione riguardo al rischio di prendere qualcosa dall’acqua contaminata, per esempio mangiando verdure crude (vietateci categoricamente da Zeudi), che quindi cerchiamo di rifiutare con gentilezza causando senza dubbio un po’ di ilarità nei nostri commensali. Tra l’altro Binod, ancora a Kathmandu, ci ha spiegato che in Nepal non è comune sentir dire apertamente no. Piuttosto si dice “sì ma“, oppure “guarda, vorrei proprio ma“. Per cui con le verdure crude ci esercitiamo nelle risposte nepalesi.

La nostra preoccupazione dipende dal fatto che anche a UPESS, come quasi ovunque, l’acqua non è potabile. Grazie ai progetti fatti con El Comedor, la scuola ne ha un approvvigionamento costante — ed è tanto, ma è solo l’inizio. Tra le nostre attività, comunque, visitiamo ache i serbatoi di cemento costruiti per stoccare l’acqua che la scuola recupera da una fonte (purtroppo superficiale) sulla collina. Vorremmo andare a vedere la fonte, e ci viene risposto di andare pure, che sono solo un paio d’ore di trekking in mezzo alla giungla. Desistiamo, ma ovviamente solo perché ci manca il tempo.

L’ultima attività prevista durante il nostro periodo a UPESS è la visita a scuole nelle vicinanze, che raggiungiamo in moto e motorino, aggrappati per la vita dietro a Binod, al preside della scuola e a un insegnante che se la ridono alla vista delle nostre nocche che sbiancano intorno alle maniglie della sella. A un certo punto Chiara e Federica, in testa al corteo, scendono dalle proprie moto. Carlo che non ha ancora capito nulla chiede se sia necessario smontare, e gli viene risposto che no, non è necessario. Seguono un attraversamento di ponte tibetano sulla moto, e un’ulteriore riflessione interiore riguardo alla percezione della sicurezza che, dannazione, è proprio diversa in contesti diversi.

Dopo quasi una settimana a UPESS finiamo le attività previste dal progetto. Facciamo debriefing con il comitato della scuola, ci salutiamo con una cena tutti insieme, studenti e insegnanti, nel cortile dell’ostello, e poi torniamo al nostro motel quasi deserto. Prendiamo delle birre, cosa straordinaria in Nepal dove non si beve mai in pubblico, o almeno non lo si dice. Ma siamo ormai ufficialmente “fuori servizio”. Ci godiamo l’euforia per la stanchezza e per tutto il lavoro fatto, per aver conosciuto e parlato con persone che non avremmo mai pensato di poter incontrare, un po’ a dirla tutta anche per il fatto stesso di trovarci a 6700 km da casa. In maniera spontanea e imprevista iniziamo a ballare su un mix di musica tradizionale nepalese e pizzica. La giovane coppia che gestisce il motel si unisce a noi, scopriamo che Binod è un grande ballerino, e se c’era ancora un po’ di energia in noi decidiamo di lasciarla sulle piastrelle dell’atrio. Il giorno dopo torniamo a Kathmandu.

È difficile rendere bene le sensazioni del viaggio e i ricordi. Specialmente a distanza di un anno, visto che con grande tempismo questo resoconto è stato scritto a ottobre del 2023. Accanto ai numeri, alle foto, a tutto quello che viene raccolto nei report ufficiali, è un misto di cose quello che abbiamo riportato a Pisa. Isficamente, è la sensazione che sia davvero possibile fare qualcosa di piccolo ma sensato con le proprie competenze (anch’esse piccole). Insomma, che sia veramente utile, e giusto, ragionare sul modo più appropriato di impiegarle. Personalmente è tanto altro, esprimibile e non, che a sua volta è parte del percorso di ISF. Per esempio, è il senso di profonda ingiustizia tutte le volte che vuoi bere dell’acqua. La gratitudine profonda per la tazza di tè con il latte e le spezie che immancabilmente ci viene offerta appena ci sediamo, o l’imbarazzo mentre si cerca un modo gentile per rifiutare una tazza di tè con il latte e le spezie perché, appunto, ce la offrono sempre. In parte è la vergogna perché ci vengono preparati pasti ricchissimi. Di sicuro è l’affetto del tutto inedito e in fondo non necessario per un Paese assurdo che con un progetto in meno non avremmo mai visto. E di certo è anche il chiaro sentore che ci sia altro, fuori dalla nostra esperienza quotidiana, che sfuggirà per sempre al nostro tentativo di applicare le stesse, prestabilite, categorie di pensiero a tutte le cose.

Per dirne una, durante il viaggio per andare a UPESS siamo seduti tutti e tre sul sedile posteriore della Jeep. Ancora una volta come nei giorni precedenti percorriamo i vicoli del centro, poi la grande Ring Road. Costeggiamo il fiume Bagmati, le cui acque vedremo poi scorrere attraverso Pashupatinath portando via le ceneri delle pire funebri, accanto ad altari ai quali le giovani coppie chiedono aiuto per concepire. Sulla riva che percorriamo ci sono camion pieni di sacchi di immondizia, e persone che in quei sacchi cercano, cercano. Appena lasciata Kathmandu alle nostre spalle, Binod ci indica una catena di montagne che secondo la nostra mappa sono alte tra i 2000 e i 2500 metri, più delle Apuane. “Per arrivare a UPESS dobbiamo solo superare quelle colline”, ci dice. “Poi siamo a Nuwakot.”